Durante le nostre sperimentazioni è emerso chiaramente come l’eliminazione del senso della vista, cioè il danzare ad occhi chiusi, facilitasse il mettersi in relazione con gli altri danzatori, dovunque essi fossero, permettendo probabilmente di ‘isolarsi dal proprio contesto spaziale’ ed entrare in contatto con l’altro in uno spazio immaginario interno. Da qui è nata una nuova riflessione, vale a dire sperimentare la possibilità di mettersi in relazione con lo spazio esterno eliminando il senso della vista e indagare ulteriormente questa modalità e come questa può influenzare la relazione con il pubblico.
4 SENSES
Il chiudere gli occhi è normalmente utilizzato come strumento per stimolare la propiocezione e l’interocezione nonchè facilitare l’ascolto fisico ed emotivo di noi stessi; questo avviene spontaneamente quando creiamo il buio tagliando fuori il mondo esterno. E’ altrettanto au- tomatico che il nostro corpo rallenti, fino a fermarsi, quando eliminiamo gli stimoli luminosi che sollecitano la nostra corteccia e che ci tengono ancorati ad una percezione dello spazio in cui gestiamo l’equilibrio e le direzioni attraverso un’automatica e complessissima analisi spaziale gestita splendidamente dal nostro sistema nervoso.
Se invece io utilizzo questa condizione per andare non solo dentro ma anche fuori, alla ricer- ca di uno spazio altro, non limitato dalla mia visione soggettiva, allora lo stato di estrema vulnerabilità in cui ci pone l’essere privi di questi riferimenti visivi fa emergere un’attenzione, probabilmente anche uno stato di allerta, che riempie il nostro movimento di altro significato. Diventiamo esploratori, ci estendiamo come le piante che infilano le radici per raggiungere la luce, percepiamo il calore dell’aria, andiamo a ricercare degli stimoli che ci permettano di individuare dei limiti di cui non siamo certi e che ci servono per creare un’immagine interna del luogo in cui siamo. Lo spazio si contrae e si espande contemporaneamente. Danziamo sovrapponendo il nostro spazio interno con quello esterno.
Ma questa differenza, queste vulnerabilità, può essere percepite da chi ci osserva? Può aiutare o stimolare il pubblico ad attivare quella stessa sensazione di ‘spaesamento’ causato dalla mancanza dei riferimenti visivi? Può stimolare una maggior intimità tra performer e pubblico? Può cambiare cosa e quanto vediamo, una volta riaperti gli occhi? Sarebbe interessante ap- profondire attraverso lo sguardo di un osservatore esterno quale può essere il valore perfor- mativo di questa pratica.
Esiste un approccio molto interessante alla visione, avviato da Oratio Bates alla fine dell’800, secondo il quale l’immaginazione e la memoria hanno un ruolo paritario se non maggioritario rispetto all’effettivo organo di senso ( l’occhio ). Al di là del valore terapeutico di queste teorie nate per curare difetti di rifrazione, è molto interessante lo stimolo fisico e mentale innescato dagli esercizi proposti da Bates, che di fatto attraverso la creazione di un collegamento tra la visione di una realtà oggettiva di un luogo, e l’immagine interna che di quel luogo siamo in grado di ricostruirci internamente, attraverso l’uso dell’osservazione, della memoria e dell’im- maginazione, crea un ponte tra spazio interno ed esterno che influenza il nostro modo di stare e di muoverci.